Sei mesi dal 7 ottobre
Semmai servissero altri esempi fallimentari sulle guerre lampo, questa giornata può tornare molto utile.
«Ciò che sperimenterà Hamas sarà difficile e terribile; siamo già in campagna e siamo solo all'inizio. Sarà sconfitta con forza, molta forza. Lo Stato non risparmierà alcuno sforzo per aiutare tutti voi. Vi chiedo di rimanere saldi perché cambieremo il Medio Oriente». Benjamin Netanyahu parlava così ai suoi politici del sud già qualche ora dopo l’attacco di Hamas.
Aveva ragione. Il Medio Oriente - o sud ovest asiatico - è cambiato ed anche se Israele sta svolgendo il ruolo più attivo di tutti, non è detto che il cambiamento sarà in suo favore. In mezzo la variabile più importante: la presenza di smartphone e di connessione ad internet.
Buongiorno e buona domenica, bentornate e bentornati a Tensioni. Sono trascorsi sei mesi dall’attacco più letale contro gli ebrei dalla Shoah, 1200 persone uccise e 253 prese in ostaggio. Si ritiene che ci sia ancora un centinaio di ostaggi nelle mani di Hamas, non si sa in quali condizioni. Sono trascorsi poco meno di sei mesi dall’inizio dell’invasione terrestre di Gaza, che ha portato alla morte di oltre 33mila civili palestinesi bloccati in un lembo di terra senza più cibo e acqua. Per farci un’idea, Zelensky sostiene che i militari ucraini caduti in due anni di guerra siano 31mila.
Secondo il report diffuso dalle Israeli Difense Forces sono stati colpiti circa 32mila obiettivi di Hamas ed eliminati oltre 13mila dei suoi miliziani.
Non abbiamo abbastanza elementi per poter dire cosa sia successo davvero in quei giorni ed in quelle settimane, è difficile tracciare una linea precisa. In termini di numeri, i record sono importanti solo per capire la portata di un evento che sta cambiando davvero la regione.
Se le notizie sulla questione palestinese hanno iniziato ad interessarvi dopo l’attacco di Hamas è abbastanza normale e giustificabilissimo. Lo dobbiamo a questi record - e allo stallo dei colloqui - se è ancora sulla bocca di tutti. I grandi media non stanno facendo altro che un lavoro di cronaca, ma la situazione di oggi affonda le sue radici in oltre un secolo di storia.
Vero, la questione israelo-palestinese è la più intricata del mondo. Me ne occupo da più di un decennio e sento comunque di non padroneggiare mai davvero la materia. Non facciamoci però il torto di pensare che le cose vadano giudicate solo per come sono andate negli ultimi sei mesi. Il 7 ottobre è stato il turning point di una storia ben più longeva.
Cos’è successo davvero il 7 ottobre
Ci sono tre filoni narrativi dell’attacco terroristico di Hamas. In mancanza di dati certi, ognuno può liberamente tracciare dove vuole la linea fra plausibile e fantageopolitica.
Israele sapeva dell’attacco imminente e non ha fatto nulla per evitarlo.
Questa è la più recente delle versioni, ha iniziato a farsi strada con la pervicacia di Netanyahu e le decine di manifestazioni interne ad Israele che chiedono da una parte elezioni, dall’altra il ritorno degli ostaggi e dall’altra ancora - ma molto più minoritaria - la fine dell’operazione a Gaza. Netanyahu lo ha fatto per restare al potere, per distrarre il paese dai suoi guai giudiziari e dalla difficile riforma autoritaria sulla magistratura. Ha preferito non far nulla sperando che arrivasse il «rally around the flag» che accadde con Bush dopo l’11 settembre. Tutti radunati intorno al leader e contro il nemico. Purtroppo per lui la storia non si ripete mai due volte identica a se stessa.
Israele è stato colto di sorpresa. L’ex ambasciatore statunitense in Israele Martin Indyk è di questo avviso. Eccesso di fiducia nei propri mezzi e nel fatto che non c’erano tensioni in vista - non più del solito almeno - hanno portato Tel Aviv a godere di uno spensierato senso di onnipotenza che alla fine, eventualmente, gli si è ritorto contro.
Israele è dietro l’attentato. La versione più complottista, non ci sono prove che sia così. In tantissimi anni di scontri e di guerre - con gli eserciti regolari dei paesi arabi - non c’è mai stata una prova del genere. Questa narrazione funziona perché, semplificando quasi all’infinito, c’è un interesse comune fra Netanyahu e Hamas: il loro potere è messo in discussione e devono sopravvivere, perché non fare una bella guerriglia per distrarre tutti?
Semplificazione eccessiva e a tratti pericolosa.
Il supporto occidentale nei confronti di Israele dopo il 7 ottobre è stato unanime e molto sentito, com’era giusto che fosse. Cerimonie, dichiarazioni di supporto, viaggi di Stato, si stavano già predisponendo aiuti. L’appoggio è stato chiaramente totale. Dalle prime parole di Netanyahu però, l’aria era già cambiata. Il potentissimo esercito israeliano era stato svegliato, attendeva il via per l’operazione di terra, a quasi dieci anni dall’ultima. Non è la prima volta che Israele entra nella Striscia di Gaza, sono almeno quattro le grandi invasioni di terra dal 1948 ad oggi. La maggiore percentuale di perdite, si ha, come al solito, fra i civili.
Il rapporto con gli Stati Uniti
Cos’è il diritto senza certezza della pena? Che fine fanno le minacce senza bastone? Che succede se i genitori contano fino a tre e poi non risolvono la situazione?
Trionfa l’arroganza. Il senso di superiorità dovuto all’impunità che smette di tenere conto dell’opinione altrui, anche di chi ci vuole bene. Perché non vogliamo sentirlo, perché crediamo di potercela fare da soli. Ecco, fra i bambini ed attori statali avviene lo stesso processo mentale. L’essere umano è sempre quello, no?
L’ultimo colloquio telefonico fra Biden e Netanyahu pare abbia avuto toni molto aggressivi. Il primo ha detto al secondo che il sostegno dipenderà da come tratterà i civili a Gaza. Fra le righe c’era la possibile eventuale minaccia di sospendere gli aiuti militari.
Questa cosa non aiuterà Biden nella sua campagna elettorale. Sarebbe «Too late, too little». Basta farvi un giro sui profili social del POTUS.
Le tensioni fra Biden e Netanyahu toccano anche corde personali. L’amicizia fra i due viene da lontano, dagli anni Ottanta, quando a Washington DC Biden era un giovane senatore del Delaware e Netanyahu un ancor più giovane diplomatico fresco di laurea al MIT. Da quell’amicizia il futuro Presidente USA ha iniziato a maturare sentimenti di vero attaccamento ad Israele, lo immaginava come un fiore democratico nel deserto di una regione instabile e spesso autocratica. Anche qui, come sempre, il personale è diventato politico.
Il rapporto fra i due paesi è diventato, dal 1948 in poi, sempre più stretto. Ma è con la guerra dello Yom Kippur del 1973, dove Israele fu attaccato a sorpresa, che gli Stati Uniti hanno elevato ad alleato prediletto lo stato ebraico. A sua volta questo fu il motivo per cui il prezzo del petrolio si impennò vorticosamente: i paesi dell’OPEC si rifiutarono di vendere energia a chi supportava Israele, dando così origine alla prima grande crisi energetica. Ma quella è un’altra storia.
In un memorandum del 2016, Washington ha promesso a Tel Aviv 38 miliardi di dollari di assistenza militare per il decennio 2019-2028.
Dal 2009 in poi sono arrivati oltre 4 miliardi nelle casse israeliane solo per il sistema di difesa missilistico e Iron Dome, la virtuale cupola che permette ai razzi di Hamas di non penetrare quasi mai sul territorio israeliano. Un gioiello della tecnologia militare, qui come funziona.
A marzo 2023, il Congresso degli Stati Uniti per il 2023 ha stanziato 3,8 miliardi di dollari in finanziamenti militari per Israele.
Dal 7 ottobre, l’amministrazione Biden ha già approvato due grandi vendite militari ad Israele. Le armi americane si stanno usando a Gaza, e questa cosa inizia a non piacere tanto agli elettori democratici.
Perché i governi occidentali hanno dovuto ricalibrare le parole di supporto ad Israele dopo qualche tempo dal 7 ottobre? Come dicevo prima, per la presenza di smartphone e connessione ad internet. Per la prima volta non sentiamo solamente la versione ufficiale israeliana. Per la prima volta vediamo gli effetti devastanti del suo straordinario esercito su bambini e adulti, indiscriminatamente. Sono stati uccisi mentre sventolavano bandiere bianche, davanti ai loro figli con i loro corpi seppelliti dai bulldozer. Lo abbiamo visto, e dobbiamo dire per fortuna. Vedere cosa avviene veramente sul campo aiuta a farsi un’opinione meno politicizzata. Se non ci fossero stati i giornalisti e gli attivisti palestinesi, come Motaz Azaiza, Plestia Alaqad, Yousef Mema, come Wael Al-Dahdouh, che ha perso moglie, figli e parenti sotto le macerie e ha continuato a fare il suo lavoro, noi crederemmo alla versione secondo cui Israele «sta annientando tutte le cellule terroristiche di Hamas».
Cosa succederà ora
Non c’è alcuna possibilità che venga raggiunta una tregua in tempi brevi, nonostante il cessate il fuoco finalmente dichiarato dall’ONU. Alcune proposte non prevedevano la possibilità di ritorno per i gazani, quindi sono state bocciate dalla controparte egiziana e qatariota, altre non prevedevano l’allontanamento di Hamas dalla striscia e quindi bocciate dalla controparte statunitense e israeliana. Per ora non c’è molto terreno per tentare una tregua.
Hamas è in fuga, è rimasto rifugiato perlopiù a Rafah. Fintanto che però non sarà approvato un governo sostitutivo - ricordiamo che Hamas governa la Striscia dal 2006 - non può esserci un vero annientamento dell’organizzazione.
Dopo il bombardamento israeliano su Damasco che ha ucciso il Generale Mohammed Zahedi, capo delle Brigate Quds dei Guardiani della Rivoluzione Islamica dell’Iran, l’intelligence USA dice che un attacco da parte iraniana arriverà entro una settimana. Qui spiego perché secondo me non sarà un attacco frontale.
A livello umanitario, sono 200 gli operatori umanitari uccisi da Israele nella Striscia di Gaza in questi sei mesi. Quale ONG manda a morire i suoi in un territorio dove vengono colpiti nonostante tutte le precauzioni?
Report e articoli da segnalare
Come va dal punto di vista energetico la guerra russo-ucraina e quali influenze ha su di noi?
In Slovacchia il nuovo Presidente è filorusso.
Il Vietnam sta affrontando un periodo di caos politico.
La Costa Rica vuole opporsi al modello Bukele di El Salvador.
Consiglio di lettura
Due ebrei che ragionano sulla questione palestinese. Con due visioni che non potrebbero essere più differenti. Ha senso parlare ancora di soluzione a due Stati? Si tratta di un testo che può leggere chiunque, anche chi non si ritiene preparato sull’argomento, è posto sotto forma di intervista ed è un dialogo fra due grandi intellettuali.
Questo e altri libri li trovate nel mio shop Amazon, dove sto piano piano raccogliendo tutte le mie letture su esteri, relazioni internazionali e geopolitica. Se acquistate da questo link otterrò una piccola commissione, per voi il prezzo non cambia.
A domenica prossima!
✉️ Se questa newsletter ti è piaciuta inoltrala a chi può interessare.
📲 Per tenerci in contatto c’è sempre Instagram.
✌🏼Tensioni è e sarà sempre gratuita, ma è a tutti gli effetti un lavoro impegnativo, se potete e volete ho aperto un fondo su buymeacoffee. Ogni tot di tempo farò un report delle donazioni e vi terrò aggiornati. Grazie!